Giacomo Baroffio

Presentazione del volume di Antonio Cembran, Il coro del Concilio

Giacomo Baroffio

Leggere il volume di Antonio Cembran, Il coro del Concilio, è un’avventura affascinante perché si legge la storia in una prospettiva che toglie gli eventi dalla nicchia del passato e li inserisce, in modo vivo, nel tessuto della storia di sempre e di oggi, in particolare. È stata una lettura, quella del libro di Cembran, molto più avvincente di quella che potrebbero essere le cronache che riempiono i giornali. Cronache perlopiù effimere, spesso inconsistenti, con notizie che scompaiono presto senza lasciare nessuna traccia. Mentre ciò che compare quale ordito, filigrana in questo libro, è l’attenzione a un fatto che trova 1) la sua espressione in un particolare linguaggio musicale, 2) la sue radici nella fede di un uomo, Lorenzo Feininger, 3) la concretizzazione nell’esperienza vissuta da alcune centinaia di ragazzini.

            Mi ricordo che nel 1961, mentre ero studente all’Università di Colonia, proprio nella città renana si è tenuto un grande e importante Congresso internazionale di musica sacra promosso da Mons. Johannes Overath. Un pomeriggio c’è stato un po’ di scompiglio che ha messo in agitazione un mondo, diciamo, educato e standardizzato su schemi ritenuti ineccepibili, il mondo della musicologia e della musica pratica. Questo mondo è stato messo sottosopra, è stato messo in crisi proprio da don Lorenzo Feininger. Egli non ha portato il suo coro a Colonia, ma soltanto una registrazione. Leggendo il libro mi sono ricordato di un personaggio, che Cembran menziona, Mons. Fiorenzo Romita. Si riteneva il padre-eterno e responsabile di tutti i cori di voci bianche a livello universale (era il presidente dell’Associazione dei pueri cantores). Romita era di quelli che scalpitava: “Non si canta così… Così si rovina la musica e i ragazzi… È un disastro”. “È una follia” facevano eco alcuni musicologi e musicisti tedeschi.

            Certamente l’impianto vocale ed espressivo del Coro del Concilio era lontano anni luce da ciò che ormai ci si stava abituando ad ascoltare a livello concertistico. Due anni prima, nel giugno 1959, durante i Festspiele di Händel a Halle, avevo sentito dal vivo l’allora già famoso Deller Consort, la cui vocalità, modalità espressiva e interpretativa era agli antipodi rispetto a quella di Lorenzo Feininger. Non ritengo affatto che il Deller Consort cantasse in modo artificioso, perché chi l’ha ascoltato – direi vissuto – a  pochi metri, ha avuto un’esperienza emotiva, estetica e spirituale molto profonda. Non erano dei mestieranti o solo abili tecnici della voce, soprattutto Deller, ma anche i suoi compagni. Era un modo autentico di porgere e condividere la propria esperienza culturale, assimilata nel profondo, rendendola accessibile a chi si poneva in ascolto e forse non aveva mai sentito i nomi dei compositori che il Consort proponeva in concerto. In quegli anni il Deller Consort per molti era il paradigma dell’esecuzione vocale della musica “antica”.

            Lo stesso diploma di legittimità spetta però anche al Coro del Concilio, lontano mille miglia, totalmente diverso. Eppure, anche questa era una proposta legittimata perché dava una concretizzazione reale, tangibile, a un’idea forza – che era quella di Lorenzo Feininger – convertito al cattolicesimo come altri musicisti (penso in particolare al compositore berlinese Max Baumann che in quegli anni ho incontrato più volte all’abbazia di Maria Laach, nel periodo in cui aveva scritto un grandioso oratorio sulla Risurrezione, eseguito a Colonia. Baumann pure è entrato in crisi dopo gli avvenimenti conciliari, meglio dopo l’orgia iconoclastica del dopo-concilio). Ecco, il Coro del Concilio ha dato una realtà sonora tangibile all’esperienza spirituale di Feininger.

            La quale esperienza era spirituale nel senso stretto del termine, perché era un’esperienza vissuta nella forza dello Spirito santo. Non si era convertito Feininger solo per cambiare i dati anagrafici. La sua esperienza era spirituale anche in senso lato, perché nella conversione Lorenzo Feininger ha trovato una marcia in più per penetrare nei meandri dell’esperienza artistica di quella musica che lui ha riscoperto e che noi oggi conosciamo meglio d’allora, cioè la scuola romana e la sua policoralità.

            Il Coro del Concilio, come bene ha detto in prima persona poc’anzi Antonio Cembran, cantava perché cantava, per il gusto di cantare. Ho avuto anch’io la fortuna di iniziare a cantare in chiesa – e a suonare il violino – verso i cinque anni. Rileggendo queste pagine spesso mi sono ritrovato. Da piccoli, a cinque, sette e anche a dieci anni, non si canta perché si ha chissà quale ideale. Si canta perché è bello cantare. È bello sentire la voce e scoprire se stessi. Il canto permette a tutte le persone di entrare nel profondo della propria vita e conoscere delle risonanze e delle sensibilità che altrimenti non vengono alla luce. Credo che questo sia anche un motivo per cui oggi non si canta più. Perché fondamentalmente si ha paura di se stessi. Si ha paura di conoscere ciò che siamo nel profondo. Mentre un coro di ragazzini, che possono sembrare sguaiati, e talora lo sono realmente, in ogni grido esprimono la gioia di una scoperta, la scoperta della vita e di se stessi.

            Ci vuole la maestria di un Lorenzo Feininger per dominare e coordinare questo terremoto continuo, e di convogliare le forze dirompenti in un flusso sin-fonico, armonico. Vale a dire, tante voci, nonostante il gridare e attraverso l’esuberanza espressiva, si uniscono e diventano un’unica voce che proclama il linguaggio della musica e, più importante, della fede.

            Lorenzo Feininger merita di essere ricordato con un libro, con un disco che sarà diffuso; ma merita di essere ricordato soprattutto quale maestro che, non so per quale motivo, mi fa venire in mente la formula d’investitura del cantore (formula probabilmente d’origine africana e tramandata dagli Statuta Ecclesiae Antiqua, è presente nel Pontificale Romanum ed è ricordata anche nel libro): “Il cantore deve sforzarsi – ma presto diviene una cosa ovvia e spontanea – di credere nel profondo del cuore ciò che proclama con la voce; e quanto crede nel profondo del cuore, il cantore è chiamato a realizzarlo nell’azione, nella vita quotidiana”, in quella dilatazione della carità che trasforma e trasfigura la vita. Perché la vita non è fatta di letteratura e bei pensieri, ma di gesti concreti.

            Gesti che Feininger ha posto attraversando innumerevoli difficoltà. Apolide, deve lasciare la patria. Quando si affronta un fatto del genere, si vive sulla propria pelle ciò che dice l’apostolo san Paolo con un’espressione che si prende spesso sotto gamba proprio perché non si è in quella condizione: l’essere pellegrini. Avere la percezione che la nostra cittadinanza è nel cielo; essere concittadini dei santi; lavorare all’edificazione della Gerusalemme celeste.

            Feininger, da apolide, si è trovato quasi costretto a mettersi in sintonia con l’apostolo. Ha vissuto allora questa sua condizione estremamente precaria non facendone un dramma, ma capovolgendola. Secondo il detto “Fare di necessità virtù”.. La virtù è stata la scoperta e la riscoperta della musica nella liturgia, per la liturgia. Soltanto mirando a questo ideale – penso a don Lorenzo con le sue piccole invettive, ai suoi scatti di nervosismo – è stato perseverante, è stato paziente. Erano centinaia di ragazzini, cantori sì, ma – non voglio offendere nessuno – anche monelli, lo spero. Perché la vivacità si riflette nel canto dando ad esso una nervatura che altrimenti non si riesce a imprimere. E questo pover uomo deve destreggiarsi. Deve sollecitare e provocare senza mortificare. È un’impresa non da poco, perché l’impegno per il coro e nel coro don Lorenzo non l’ha vissuto in vista di un’esecuzione, di un momento finito il quale poteva tornarsene in santa pace ai suoi libri. Alcuni decenni hanno visto don Lorenzo all’opera. Nello stesso momento questi ragazzini, che avrebbero potuto divertirsi in altro modo, hanno scoperto che la musica dava loro qualche cosa che non avrebbero mai trovato negli oratori, nelle piccole bande delle strade, nei vari giochi infantili e giovanili.

            Per questi motivi l’esperienza del Coro del Concilio è qualche cosa di mirabile. È stato l’incontro delle persone giuste al momento giusto. Dico questo nonostante alcune parole di don Lorenzo e pensieri di altri che potrebbero far pensare essere stato il Coro del Concilio una cosa buona, una realtà affascinante, ma nel momento sbagliato, nel posto sbagliato, perché i tempi non erano maturi. Ma i tempi maturano soltanto se c’è una sollecitazione, una provocazione. E il Coro del Concilio è stato un episodio che ha valore al di là di quanto si diceva allora e si pensa oggi.

            Ha valore davanti a D-i-o, prima di tutto. Questo è un aspetto che non si può tacere né dimenticare. La gratitudine va in primo luogo a don Lorenzo, ma attraverso don Lorenzo e il suo Coro, la gratitudine va allo Spirito santo. È Lui che muove, è Lui che genera il senso della bellezza, che sparge i semi del bello nel cuore dell’uomo. Se lo Spirito santo è presente in un’esperienza umana, questa esperienza non si conclude con gli uomini che sono protagonisti in quel momento. È un aspetto, questo, che non dobbiamo dimenticare. Il libro non parla di fatti del passato, perché dove c’è lo Spirito, è vivo il presente al massimo grado d’inytensità. Il Coro del Concilio è vivo. Lo lascia intuire e percepire nel modo più immediato l’ascolto di alcune registrazioni. Ma anche se non ci fossero più registrazioni, nell’economia della storia, ciò che è stato un momento di bellezza e di verità, rimane ed edifica per sempre la storia dell’uomo.

            Per cui la nostra gratitudine va ad Antonio Cembran che ci ha permesso di conoscere questa epopea, va a don Lorenzo e a tutti i ragazzi del Coro del Concilio. Il loro contributo per l’edificazione della città di D-i-o in terra è stato unico.  È imperituro.

 

Trento, 13 novembre 2007, Castello del Buonconsiglio