Oscar Mischiati

Ricordo di Don Lorenzo Feininger

di Oscar Mischiati

 

Invitato a commemorare Don Lorenzo Feininger a Rovereto agl’inizi del 1977, esordii allora affermando che parlare di lui era difficile, anche perché incombeva lo sgomento che la sua morte improvvisa aveva suscitato in coloro che lo conoscevano e che ne condividevano gli interessi culturali. Sgomento che ancora perdura quando si sappia apprezzare la sua eccezionale profondità di conoscenza, la sua straordinaria lucidità, la sua incredibile, ammirevole capacità di lavoro.

Ma se non si vuole limitare la commemorazione al semplice ricordo personale, si deve cercare di definire il significato dell’opera e della personalità di Don Lorenzo. Ed è precisamente a questo punto che insorgono le difficoltà per la complessa problematica storico-culturale che ci si para dinanzi.

In sostanza, Don Feininger fu un isolato. E lo fu essenzialmente per una scelta, si potrebbe dire, di qualità. Essendosi proposto di approfondire la conoscenza della polifonia ed essendo – al momento in cui egli iniziava il lavoro, cioè negli anni 1930/’40 – le fonti manoscritte e stampate praticamente ancora tutte da trascrivere (come, ad esempio, i codici di Ivrea, Aosta, Bologna Q 15, Oxford, buona parte di quelli di Trento ecc.), egli intraprese con coerenza e abnegazione e condusse con perseveranza questo lavoro. Data la mole del patrimonio da trascrivere, schedare, inventariare, egli non avrebbe certo potuto condurre continuativamente (come impegno principale) una tale impresa se si fosse lasciato coinvolgere nella fitta rete di relazioni che normalmente comporta il far parte del mondo cosiddetto scientifico: ad esempio, mantenere la corrispondenza epistolare con i colleghi, collaborare a riviste, redigere recensioni, partecipare a congressi, tenere conferenze; pochissimi infatti sono gli articoli di riviste o di pubblicazioni similari redatti da Don Feininger.

In secondo luogo Don Lorenzo lavorava esclusivamente per la conoscenza scientifica, per la verità. Essendosi cioè egli volontariamente tagliato fuori delle convenzioni, dalle convenienze e dai condizionamenti del mondo accademico, non aveva gradi universitari da perseguire, non doveva concludere in fretta lavori da presentare a qualche concorso, non aveva da accattivarsi la simpatia di qualche influente autorità «scientifica» o di potente membro di giuria di concorso, non aveva infine impegni di insegnamento con le conseguenti incombenze burocratiche (esami, sedute di facoltà ecc.). In Don Feininger quindi lo studioso, il ricercatore assumeva i contorni e il carattere fuori del tempo e dello spazio propri del costume monastico medievale; nella prospettiva del Soli Deo Gloria (sulla carta intestata della Societas Universalis S. Ceciliae figurava il motto biblico: Satiabor cum apparuerit gloria tua) si annullava ogni caducità, ogni aspetto contingente.

Che quest’atteggiamento avesse assunto il definitivo aspetto del carattere, dell’habitus, poté essere avvertito da chi avesse avuto modo di avvicinare e conoscere non superficialmente Don Lorenzo: un’ascetica sobrietà, un candore ed una sincerità disarmanti uniti ad una vivissima intelligenza, ad una lucidità di giudizio tanto più efficace in quanto espressa senza condizionamenti o riserve o infingimenti (cosa, del resto, assolutamente non usuale – almeno in Italia – in un sacerdote).

Conferma illuminante del suo modo di pensare e di valutare uomini e situazioni è un passo di una sua lettera alla clavicembalista Hilda Jonas – datata 21 gennaio 1975 – riferentesi ai suoi studi universitari:

Nonostante io abbia avuto, come insegnanti, persone di indubbia levatura, come Willy Apel, Heinrich Besseler e Wolfgang Fortner, devo confessare di non esser stato un allievo di loro piena soddisfazione: in tal senso credo meglio definirmi un autodidatta. In realtà non avevo certo bisogno di fare continui esercizi di contrappunto, in quanto conoscevo la materia perlomeno quanto i miei insegnanti. A questa conoscenza ero arrivato dal semplice e diretto studio delle partiture di J. S. Bach, di J. des Prez e di tutti gli altri musicisti che mi affascinavano: dal che potevo dedurre che, se mai dovevo far qualcosa, dovevo farlo per me stesso, e non certo ai fini di un ridicolo esame scolastico o per conseguire un discutibile diploma ‘ufficiale’.

Mi resi conto di ciò in una situazione curiosa: il prof. Besseler (che godeva fama di modernità e di applicare metodologie avanzate) mi mise a disposizione con grande generosità per la mia tesi di laurea il suo archivio fotografico. Pensai che era proprio un peccato avere tra le mani tutto quel materiale da studiare non provvedere contemporaneamente a trascriverlo da capo a piedi: pensarlo e farlo fu tutt’uno. E nell’opera di trascrizione mi trovai a fare le più eccitanti scoperte e mi affrettai a discuterne con Besseler: scoprii che risultavano tali a lui come a me!

Da ciò dedussi che il vecchio sistema del ‘maestro’ che fa far agli allievi lo sporco lavoro di preparazione del materiale – l’opera di trascrizione non essendo considerata a livello della sua dignità – comporta un’impossibilità di avvicinare il meglio e non è assolutamente il metodo adatto per ‘possedere’ il materiale originale di cui si dispone: insisto e dico che la trascrizione in partitura delle parti singole è l’unico metodo per arrivare a conoscere intimamente la personalità di qualsiasi autore di qualunque periodo.

Sarebbe davvero fuori strada chi vedesse in queste righe un atteggiamento di narcisismo o un residuo di goliardica impertinenza; è semmai espressione di quella certa forma di orgoglio intellettuale che caratterizza forse inevitabilmente tutte le personalità di rilievo, senza contare che in Don Feininger era stringente più che per qualsiasi altro il nesso di verità-necessità-sincerità; d’altra parte, a proposito di H. Besseler quale suo docente, Don Lorenzo ammetteva con un tocco di umiltà misto a garbata ironia: «Ci sopportavamo a vicenda».

Ma l’aspetto più decisivo – se così si può dire – del suo isolamento è stato certamente quello relativo all’ambiente e al mondo ecclesiastici. Infatti, se negli ultimi anni – in concomitanza con le ben note vicende post-conciliari della cosiddetta riforma liturgica – egli entrò in polemica diretta ed esplicita con la curia trentina, è certo che nei vent’anni precedenti (a partire cioè dalla sua entrata nell’ordine sacerdotale) la sua opera non incontrò che insensibilità, indifferenza e ignoranza a tutti i livelli.

Tutto ciò è indubbiamente sorprendente, soprattutto quando si pensi che Feininger si era convertito al cattolicesimo e poi si era fatto sacerdote proprio per amore della musica sacra. Obbiettivamente egli si è trovato a vivere in una situazione di crisi culturale del mondo ecclesiastico che dura da parecchio tempo e non accenna, a quanto sembra, a risolversi.

Anzi nei riguardi di questa situazione Don Feininger ha offerto un esempio e un modello degni di essere seguiti: unire cioè la perfetta ortodossia e il restare dentro la chiesa alla doverosa indipendenza di giudizio sulle scelte storicamente contingenti della gerarchia. Il che, nel nostro Paese, non è ancora costume e forse qui a Trento è più arduo che altrove. Ma proprio in questa terra ci soccorre il ricordo luminoso ed esemplare di un grande precedente: quello di Antonio Rosmini. Forse non molti ricorderanno che il filosofo e sacerdote roveretano scrisse tra il 1832 e il 1833 Le cinque piaghe della Chiesa, apparse poi a Lugano nel 1848 e in quello stesso anno poste sollecitamente all’indice dei libri proibiti (ciò che, tra l’altro, costò la porpora cardinalizia al Rosmini stesso).

Mi sembra infatti – si parva licet componer magnis – scorgere una profonda analogia tra la posizione di Rosmini e, mutatis mutandis, quella di Feininger; Rosmini infatti metteva coraggiosamente il dito sui mali della Chiesa e additava soluzioni per quei tempi a dir poco utopistiche, tant’è che a tutt’oggi esse non sono state adottate se non in parte. Evidentemente l’oggetto e la prospettiva di Rosmini erano diversi, ma in sostanza anche lui espresse un giudizio negativo sugli orientamenti politico-culturali della gerarchia.

Orbene, tutto l’operato di Don Lorenzo è allineato sullo stesso indirizzo: di condanna e di contestazione in materia musicale degli indirizzi ecclesiastici pre- e post -conciliari. Di fatto, egli non mantenne il benché minimo rapporto con l’attività e la realtà musicale ecclesiastica ancor oggi largamente ereditaria degli pseudo-concetti e degli intenzionali livelli di mediocrità propri del cosiddetto movimento ceciliano. Anzi, a tale proposito, Don Lorenzo non faceva mistero della sua scarsa considerazione per la polifonia palestriniana e, in genere, della seconda metà del Cinquecento, scorgendovi a suo giudizio un prevalente atteggiamento compositivo armonico-verticale; per converso, egli teneva nella massima considerazione la musica delle epoche anteriori, in particolare quella che va sotto l’etichetta di polifonia fiamminga e passava poi, da vero pioniere, a recuperare e a rivalutare quella dell’età barocca, in special modo lo stile policorale romano.

Ho ricordato la straordinaria lucidità di Don Feininger. Se questo vale come indice della capacità che egli aveva di leggere musicalmente gli antichi manoscritti, penetrando la sostanza della pagina musicale dopo aver risolto con disinvoltura gli artifici compositivi e notazionali, questo vale a fortiori per la sua posizione ideologica. Posizione, inutile dire, che egli non mutuava aprioristicamente – come purtroppo oggi è costume – da qualche astratta costruzione filosofica o anche dall’ultimo volume alla moda di antropologia cosiddetta culturale o di sociologia. Egli era invece pervenuto alle sue convinzioni dopo un lungo, estenuante lavoro di studio di un numero imponente di composizioni da Leonino a Perotino fino a Gregorio Ballabene, lungo un arco di circa sei secoli. Credo non sia mai esistita una persona che abbia lavorato direttamente sulle fonti musicali così in profondità e in estensione come Feininger. Orbene i suoi giudizi storico-critici, cui si è fatto cenno, sopra il movimento ceciliano, la polifonia di epoca palestriniana, lo stile policorale sono ben lungi dall’essere condivisi, non dico in ambiente ecclesiastico, ma sinanche in quello proprio degli storici e critici della musica e dei musicologi; essi hanno tuttavia il pregio di essere in linea con la cultura più avvertita e più aggiornata.

Negli ultimi anni della sua vita, Don Lorenzo entrò in aperto contrasto con le autorità ecclesiastiche in merito alla cosiddetta riforma liturgica e il tasto dolente che lui ripetutamente toccava era quello della mediocrità, della banalità e della volgarità. E così non poteva non essere; in effetti, uno degli aspetti più evidenti della sua personalità era quello di un’estrema signorilità e di una singolare nobiltà del tratto; generoso oltre misura, non concedeva però confidenza; i suoi giudizi anti-convenzionali, talvolta persino taglienti, affascinavano per la quantità di luce che irradiavano e nello stesso tempo stupivano per il disarmante candore.

Se è lecito aggiungere a queste considerazioni il ricordo personale diretto, posso dire di aver conosciuto Don Lorenzo attraverso un altro illustre trentino, Renato Lunelli. Iniziavo allora a coltivare le ricerche di storia organaria ed entrai perciò necessariamente in contatto con il pioniere in Italia di questi studi, il Lunelli appunto. Fu infatti durante una mia visita a Trento che l’illustre organologo mi presentò a Feininger verso la fine del 1958; l’anno successivo iniziò una corrispondenza che a fasi alterne durò vari anni. Tra la fine del 1960 e il 1963, inoltre, ebbi più volte occasione di frequentare Don Lorenzo, dato che – insegnando io allora al Conservatorio di musica di Bolzano – passavo necessariamente da Trento e avevo quindi la possibilità di fermarmi tra un treno e l’altro. Potei così conoscere da vicino questa straordinaria personalità e ammirare i tesori da lui accumulati, così beneficiando anche della sua estrema generosità: ebbi per vario tempo in prestito gli spogli tematici – redatti con incredibile nitidezza calligrafica (da lui modestamente attribuita «semplicemente ai buoni pennini» della penna ad inchiostro!) – di una grande quantità di manoscritti polifonici del Rinascimento.

Per ricambiare in qualche modo tanta disponibilità, feci qualcosa per aiutarlo a rintracciare fonti a lui sconosciute o inaccessibili. Così, ad esempio, fornendogli l’opuscolo ‘Membra disierta’ dell’archivio musicale di Santo Spirito in Saxia (Roma 1937) di Guido Mattei-Gentili, indirettamente lo posi sulla traccia di quello che sarebbe poi stato l’acquisto di una delle perle della sua raccolta: il pressoché intero archivio musicale della chiesa di S. Spirito in Saxia a Roma, da lui reperito presso gli eredi del celebre collezionista Evan Gorga.

Di tale acquisto faceva parte anche – pur non appartenendo al nucleo di S. Spirito – il manoscritto della Missa Jubilate Deo di Luca Marenzio, che egli cortesemente mi concesse in prestito (si tratta della messa che io ho pubblicato alcuni anni addietro quale volume settimo dei «Monumenti Musicali Italiani»); in pari tempo mi era possibile fargli conoscere una copia ignota – quella della Biblioteca del Convento di S. Francesco a Bologna – del Dixit a 16 voci di Pasquale Piseri.

Il catalogo della mostra della Biblioteca Feininger contiene un mio breve saggio su un manoscritto di musica cembalo-organistica italiana che era nelle intenzioni di Don Lorenzo cedere ad una biblioteca; mi interessai a tale scopo, ma la cosa non ebbe seguito.

Mi detti anche da fare – lo dico non per enumerare meriti, sarebbe sciocco, ma piuttosto per far toccare con mano l’isolamento e l’ignoranza in cui l’uomo e la sua attività erano tenuti – affinché qualche istituto o biblioteca acquistassero le sue pubblicazioni di musica polifonica (ciò che avvenne con la Biblioteca musicale «G.B. Martini» di Bologna e con la sezione di storia della musica dell’Istituto Storico Germanico di Roma). È il caso di ricordare, infatti, che egli stampava a sue spese le proprie trascrizioni di musica del Quattrocento e del Sei-Settecento, ma le sue varie collane avevano pochissime sottoscrizioni, anche perché estranee al giro delle grandi case editrici e della relativa pubblicità.

Questo è stato grossomodo, tra il 1960 e il 1965 soprattutto, il mio rapporto con Don Feininger, in seguito rarefattosi perché altri impegni di studio e di lavoro mi allontanarono dalle ammirate e predilette sue carte; ma ho sempre consertato dentro di me la nostalgia e il ricordo struggente di tanta ricchezza e bellezza grafica: così i due volumi contenenti la copia diplomatica degli organa della cosiddetta scuola di Notre Dame (con le varianti dei diversi codici in altrettanti inchiostri di colore diverso) con un allegato quadernetto di appunti fitti, serrati; oppure i due volumi contenenti la trascrizione di tutto il repertorio trecentesco italiano, per non parlare della singolare trascrizione del codice di Ivrea, senza dimenticare quella del Q 15 di Bologna e di tanti altri.

Seppur lentamente e con ritardo, l’interesse e l’attenzione del mondo musicologico per l’opera e il lascito di Don Lorenzo Feininger stanno crescendo; questa stessa circostanza ne è una palese testimonianza. Voglio augurarmi che questo sia solo un inizio per la migliore valorizzazione di questa inestimabile raccolta; tra le innumerevoli trascrizioni effettuate da Feininger degne di pubblicazione oso proporre quella del manoscritto cembalo-organistico sopra ricordato, così come sono convinto che anche i suoi indici tematici dei manoscritti polifonici opportunamente pubblicati costituirebbero per gli studiosi un impareggiabile strumento di lavoro.

 

Da: I Codici Musicali Trentini I° (Atti Convegno), 1986